Viene prima l'abito o il monaco?
Sapersi vestire o farsi vestire? Un dilemma di personalità che coinvolge 3/4 delle celebrità contemporanee - Sanremesi compresi
Ciao cessi adorati, buon martedì!
Come state? Sopravvissuti al Festival di Sanremo? Soddisfatti? Indignati, delusi e amareggiati? Oggi ne parliamo, non vi preoccupate. Sono la vostra psicologa seduta sul cesso. Ma la moda, protagonista assoluta perfino di un festival in cui dovrebbe primeggiare la musica, in questa settimana mi ha suscitato un’altra riflessione pungente che voglio condividere con voi.
Vestirsi o farsi vestire? Una questione più attuale che mai, quando la personalità si riduce a un accessorio.
Buona lettura xx
Hydra
Ieri sera io e il mio ragazzo abbiamo scoperto un sito che teoricamente sgama i testi scritti dall’Intelligenza Artificiale. Praticamente basterebbe inserire un qualsiasi testo sopra le 80 parole, farlo elaborare dal sito e scoprire quali sono le percentuali di matrice umana e A.I. nella sua stesura. Per scherzo abbiamo inserito qualche testo del Festival di Sanremo 2025 che ci puzzava di ChatGPT, e ci siamo accorti che i nostri sospetti, in realtà, erano fondati. Non voglio fare la stronza e dirvi di che testi si trattasse, e oltretutto non sono nemmeno così sicura che quel sito sia legit, ma siccome il quoziente di creatività durante la kermesse sanremese sembra essersi ridotto ai minimi termini, provate voi stessi a fare un giro su “Rephrase” e ditemi cose ne pensate. Così, come esperimento sociale. Poi se si scopre che è tutto vero, possiamo gridare “gomblottoooo” tutti insieme, come si sta facendo in merito al vincitore da giorni. Tuttavia, come sempre, io oggi voglio parlarvi di moda, praticamente l’unico mezzo di comunicazione efficace che è rimasto sulla faccia della Terra, ma di cui si sta oltremodo abusando. E così, eccoci qui a commentare i veri protagonisti del Festival: non la musica, non le performance, non i testi (su cui aleggia il sospetto che mezza scaletta sia stata scritta dall’A.I.), ma i vestiti. Perché chiamarli “look” implicherebbe un’intenzione, un ragionamento, un legame con chi li indossa. E invece, a guardare la sfilata di brand impacchettati addosso agli artisti, la sensazione è che questi abiti non vestano nessuno. Li coprano, semmai, li occultino.
C’è un paradosso affascinante nella moda del Festival di Sanremo. Un tempo, il problema era il contrario: la musica veniva prima di tutto, e chi saliva su quel palco lo faceva vestito in modo seriale, assecondando il concetto di eleganza e buongusto di un’epoca. Poi è arrivato il concetto di immagine, e con esso la consapevolezza che l’abito poteva essere un’estensione del messaggio artistico. Adesso, però, siamo all’eccesso opposto: la moda ha inghiottito tutto, riducendo i cantanti a portatori sani di marchi, a pedine di una scacchiera in cui la mossa più importante è finire nelle IG stories di Gucci, Valentino, Prada. E guardando la carrellata di outfit di questa edizione, viene da chiedersi dove stia la personalità. Certo, il discorso esclude alcune eccezioni, primo fra tutti Lucio Corsi: l’unica vera mosca bianca del Festival, che del nome non si è fatto precedere dal nome altisonante di un brand, ma ha indossato sempre le sua uniforme statement. Ma oltre a Lucio, ogni esibizione del Festival si atteneva a un cambio d’abito obbligato, mentre ogni brand corrispondeva a una tappa necessaria e forzata in un percorso che ha meno a che fare con la musica e più con il product placement. Sembrava quasi di stare ai Grammy, dove ormai i performer passano più tempo a cambiarsi che a cantare. E il problema alla base è che tutto questo non significa stile, significa solo quantità. Accumulare, indossare, scattare, postare. Un’intera industria costruita su look studiati per durare il tempo di una story, poi via, si cambia, e il pubblico non ha neanche il tempo di metabolizzare l’immagine di un artista che già deve adeguarsi a quella successiva. Ma se sei tutto, allora non sei niente.
Prendiamone tipo tre a caso: Achille Lauro, Elodie e Tony Effe. Artisti con estetiche (teoricamente) diverse, percorsi artistici distinti, eppure sul palco dell’Ariston sembravano tutti rispondere a un'unica esigenza: brillare più del collega con l’outfit più posizionante. Durante gli anni d’oro di Gucci, Achille Lauro aveva abituato il pubblico a una narrazione estetica piuttosto sovversiva per la scena italiana, in cui il look non era solo moda ma si estendeva alla performance, trasformando il Festival in una tela su cui dipingere personaggi queer. Eppure, quest’anno si torna sul palco a orecchie basse: il suo look Dolce & Gabbana non parlava di nulla se non di lusso stereotipato e completi sartoriali ispirati ai divi del passato, seguendo le esigenze dell’industry. Lauro, da “artista”, si è trasformato così in un testimonial, seguendo un conformismo di lusso che su di lui suona quasi come una resa. Se prima Achille Lauro usava la moda per destabilizzare, ora la usa per compiacere. E poi Elodie, la cui immagine è diventata così levigata da sembrare inaccessibile. Ogni look è studiato per elevarla a un’icona senza tempo, ma proprio questa ossessione per la perfezione la allontana dal pubblico, perdendo man mano quell’impronta di naturalezza che agli esordi la distingueva dal resto. E abbandonando anche la sensualità degli anni più recenti, barattandola con abiti haute couture che di lei - senza offesa - e della sua canzonetta, non raccontano nulla. Infine Tony Effe, che ha deciso che l’unico modo per essere notato fosse impilarsi addosso più soldi possibili. Gioielli Tiffany & Co. per un valore di oltre 400.000 euro, completi asettici, guanti - copiati da un altro concorrente di edizioni passate. Ok che la trap ha sempre giocato con il lusso come simbolo di rivalsa sociale, ma qui non c’era narrazione, solo una dimostrazione di status, e non c’era nemmeno trap, solo una canzone cantata di merda. Nel tentativo di sembrare inarrivabile, Tony Effe finisce per sembrare solo l’ennesimo artista che fa show-off senza saper pronunciare quello che ha addosso. Ma dopotutto credo che a lui vada bene così.
Anya Taylor Joy in un solo giorno (esempio preso da Vogue.com)
I cantanti non hanno più bisogno di costruire un’estetica personale, di scegliere un’immagine che parli di loro e della loro arte, perché l’importante è apparire, o meglio, apparire sempre diversi. Non c’è più il tempo né la volontà di creare una firma stilistica riconoscibile, l’unico obiettivo è accumulare visibilità, impilare brand su brand, monopolizzare il feed. Lo abbiamo visto pochi giorni fa ai Grammy 2025, dove il red carpet è stato più movimentato del backstage di una sfilata, con cantanti come Doechii e Chappell Roan che hanno sfoggiato circa tre o quattro look in meno di due ore. Come i co-conduttori sul palco di Sanremo, dopotutto. Oggi un artista può essere una gothic girlfriend avvolta nel velluto nero Balenciaga durante la performance sul palco, poi trasformarsi in una bombshell anni ’50 con Mugler per ritirare il premio, e infine rifugiarsi in un minimalismo à la The Row per l’after party. Ma se ci penso bene, in effetti, è così anche al cinema. Le star hollywoodiane sono sempre le stesse tre o quattro – Zendaya, Timothée Chalamet, Anya Taylor-Joy – che si moltiplicano in ogni blockbuster, passando con nonchalance dal biopic storico alla distopia futuristica, dalla commedia indie al film d’azione. Un’adattabilità che è diventata il loro punto di forza, certo, ma anche il loro limite. I loro volti sono volti ovunque e in nessun luogo, perfetti per ogni ruolo e quindi privi di un ruolo. È qui che l’illusione dell’onnipresenza e della versatilità totale si trasforma in un vuoto assoluto: se un attore può essere chiunque, allora non è più nessuno.
Non c’è più bisogno di coerenza, la moda per i “big” dello spettacolo è un’illusione di carattere che in realtà maschera l’assenza di un’identità definita. Di conseguenza, il pubblico non ha più il tempo di affezionarsi a un’immagine, di comprenderla, di assimilarla, perché questa cambia alla velocità di un refresh. Quello che resta è un accumulo frenetico di look senza anima, una vetrina infinita di corpi vestiti per il momento perfetto, e poi svuotati subito dopo, pronti per il prossimo outfit. Ma un’estetica senza memoria è un’estetica senza impatto. E a furia di cambiare pelle ogni cinque minuti, si finisce per non averne più una propria.
Che ne pensate? Anche voi siete arrivati a questa conclusione?
Ultimamente le mie riflessioni lasciano sempre un po’ l’amaro in bocca, avevo iniziato l’anno con ottimismo ma sto diventando sempre più woke, perlomeno evito di illudermi. Ma sono felice di vedere ancora qualche eccezione piacevole, di tanto in tanto.
Ci vediamo martedì prossimo! Nel frattempo vi comunico già che durante la Milano Fashion Week e la Paris Fashion Week analizzerò in esclusiva due sfilate per gli abbonati paid <3
A prestoooo